Di stagioni e di giovani manzi: un ricordo di Decio
by diego terna
Due, tre caricatori, armati di centinaia di diapositive e l’immancabile fotocopia in bianco e nero con i termini per l’esercitazione da consegnare la settimana successiva.
Il professore Decio Guardigli arrivava immancabilmente in ritardo alla lezione, costruendo l’aspettativa di quella che non era più, appunto, una lezione, ma, meglio, una sorta di performance, fisica, della quale attendavamo con ansia l’inizio.
Con una tristezza infinita scriviamo di Decio Guardigli al passato: da pochi giorni ci ha raggiunto la notizia della sua morte, dopo una lunga malattia, della quale speravamo fosse in via di guarigione, ma che invece si è aggravata, portandoci, così, il peggiore degli annunci.
Vorremmo dunque illuderci, giusto per il tempo di scrivere poche righe di testo, che questa notizia non ci abbia ancora raggiunto e possiamo scrivere di Decio al presente, come se fosse ancora tra noi.
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Decio: così conosciamo il professore Guardigli; con un nome insolito di imperatore romano, perso nei secoli e riapparso ai giorni nostri. Non è quindi una mancanza di rispetto, ma anzi, il riconoscimento di una personalità unica, che non necessita di un cognome, o di un titolo, ma che racchiude in due sillabe la piena legittimazione del ruolo di insegnante.
E’, infatti, una delle poche persone a cui può calzare la definizione di maestro, cioè di colui che, insegnando, riesce a cambiare la visione del mondo di chi lo ascolta, la maniera di porsi di fronte ad esso.
Conversare con lui, infatti, non è semplice: con Decio non si parla, si dialoga, costruendo ogni volta un happening artistico, nel quale ogni parola è calibrata, ogni argomento è scelto con cura, ogni tono ed ogni pausa acquistano un estremo significato.
Perchè la parola è importante e non va sprecata, ma caricata di un valore progettuale e usata per scopi che non siano di evasione, ma assolutamente concentrati verso un obiettivo.
E questo vale ancora più nel momento in cui si assiste alle sue letture.
Come scritto prima, non si tratta di lezioni, ma bensì di una sorta di monologo, con pause, lunghi silenzi, parole non dette, ma poi ribadite con forza, più volte.
Quelle centinaia di diapositive non sono sovrabbondanti al discorso: sono le strettamente necessarie a costruire la scena presentata, anche, e soprattutto, quando mostrano con ossessione l’ingrandimento dell’immagine precedente, e l’ingrandimento dell’ingrandimento, fino alla sgranatura della stessa immagine.
Perchè l’architettura che insegna Decio è un mondo costruito attraverso l’attenzione: l’attenzione ai materiali, al dettaglio minuto (che non è il dettaglio costruttivo), al peso di ogni singolo elemento che compone l’architettura presentata.
L’attenzione di Decio per l’architettura è la sintesi di una forma di rispetto smisurata verso la stessa.
Per questa ragione, da alunni, ci lamentiamo del fatto che, in fondo, nei corsi di Decio non si produca architettura, almeno nel senso a cui comunemente si pensa: con Decio si ruota attorno allo spazio, al suo progetto, alla sua maniera di presentarlo.
Come al Bauhaus, i suoi sono corsi di azzeramento, di scoperta del grado zero dell’architettura (anche le stagioni sono degli ambienti!), per questo spiazzanti e per questo spesso provocanti reazioni di amore o odio: sentimenti forti, comunque.
Questo perchè Decio nutre una sorta di venerazione per l’architettura, una ossessione ostinata nei suoi confronti, che lo spinge a trattarla come un amore sensibile, forse troppo delicato per poter essere maneggiato con forza, con spensieratezza.
Ma, d’altronde, afferma anche: non ci si preoccupa di quel di cui ci si occupa.
Solo grazie a questo suo ruotare attorno all’architettura senza mai “attraversarla”, noi assistiamo, durante i suoi corsi, all’enorme sorpresa di scoprire lo spazio vedendo film, ascoltando canzoni, leggendo opere d’arte, analizzando architetture sconosciute: nel piccolo mondo ombelicale del Politecnico di Milano, gli esempi portati da Decio sono uno sconvolgente moto di rottura rispetto alla didattica corrente.
In una istituzione che, pavidamente, cerca di premiare la mediocrità dei propri alunni, Decio, con il coraggio di quella che dovrebbe essere la normalità, continua la ricerca dei progetti migliori, da mostrare alla classe, a tutti gli alunni del corso.
Ogni esercitazione consegnata in aula, subisce un feroce trattamento di giudizio, che spesso è costruito attraverso la mancanza di commento: si parla, infatti, dei progetti migliori e, ogni tanto, di quelli peggiori. La mediocrità, lo stare nel mezzo, l’essere presto dimenticati, non sono celebrati, nei corsi di Decio.
Qui, invece, si cerca di definire una competizione verso il meglio, premiando chi primo arriva ad un progetto interessante, ma portandolo ad esempio, in maniera che possa presto essere superato da qualcuno che ha più voglia, che ha più ossessione, che lavora meglio.
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Decio, con i pochi anni di insegnamento al Politecnico, è riuscito a crescere una generazione, purtroppo una soltanto, di architetti ai quali ha donato il profondo rispetto per una disciplina che viene brutalmente violata quotidianamente; li ha spinti a considerare l’architettura una creatura da proteggere, con un lavoro certosino su ogni singolo dettaglio che la costruisce.
Decio ci ha insegnato che non esiste altro che l’architettura, nel mondo, e che, mentre guardiamo un film, mentre ascoltiamo una canzone, mentre visitiamo un museo, stiamo, realmente, progettando un’opera di architettura. Il senso è guardare, con occhi nuovi.
O siamo così, come architetti, o non siamo.
Decio, ora, ci ha lasciati un po’ più soli, perchè vorremmo, ancora, rimanere in attesa della sua prossima parola dopo l’ennesima pausa; vorremmo essere ancora in aula, tesi ad aspettare che sia il nostro il lavoro migliore, pronti a leggere la fotocopia in bianco e nero, che ci darà le regole del prossimo gioco.
Se mai potessimo parlargli, vorremmo potergli dire che noi siamo pronti, che il Politecnico, in fondo, non ha fallito, anche grazie a lui; vorremmo dirgli che ancora stanno girando nuove fotocopie in bianco e nero e che, ancora, cerchiamo di distinguere i lavori ottimi da quelli mediocri.
Forse, così, non avremo solo il ricordo di un imperatore romano, perso nei secoli.
di Chiara Quinzii e Diego Terna
ps
altre persone hanno scritto di Decio
http://www.lablog.org.uk/2013/03/25/addio-ad-un-grande-collega/
http://elgordobes.posterous.com/decio
http://www.academia.edu/4048203/EUREKAS_Riflessioni_da_uno_scritto_di_Decio_Guardigli
Grazie ragazzi. Decio è stato per qualche mese mio compagno di classe in terza liceo. E lì è diventato un mio fratello.
Grazie anche da parte mia.
Lui era mio cognato, ed io non l’ho mai conosciuto sotto il profilo professionale, ma neanche fino in fondo.
Era un po’ trasparente, un po’ impenetrabile.
Sempre originale ed imprevedibile.
A volte non condividevo le sue posizioni da subito, ma poi, riflettendo, spesso mi allineavo alle sue.
Perché aveva un certo modo di porsi, che faceva sì di non suscitare contrasto, ma riflessione.
In campo a pallavolo era tutta un’altra cosa.
Era fin troppo preso dall’agonismo, oppure si annoiava e non competeva, disimpegnandosi.
Il suo sguardo profondo, in quei folti sopraccigli, il suo sorriso e la sua maniera di mostrare affetto sono il ricordo più vivo e che mi porto impresso.
Eugenio
qui un mio ricordo
http://elgordobes.posterous.com/decio
Indimenticabile direi.
grazie per queste “immagini”, davvero rappresentative del prof. Decio
Ero un suo amico, abbiamo condiviso tanti momenti insieme, la sua perdita è enorme. Ci lascia un vuoto dentro, che scava, scava. Grazie per il ritratto attento e affettuos.
Grazie a lui tutti quelli che l’hanno conosciuto sono cresciuti un po’. Addio caro G. Decio Guardigli, ameremo l’architettura che ci raccontavi. Vittorio
Cari Chiara e Diego, non vi conosco ma vi sono grata per aver creato un luogo, seppur virtuale, in cui poter condividere questi pensieri su Decio.
Una persona speciale. Io sono stata sua allieva, davvero si merita l’appellativo di maestro. Ciò che soprattutto mi colpiva era la sua continua ricerca nell’architettura, il non essere mai soddisfatto dei progetti… a volte mi faceva anche un po arrabbiare, e a un certo punto mi ha mandato in seria crisi, questo suo rimandare sempre a un “meglio” possibile, a un oltre… Mi sono spesso chiesta se queste sue caratteristiche, che lo rendevano un personaggio estremamente misterioso, affascinante perchè ultimamente inafferrabile, fossero un suo modo di porsi verso noi studenti, oppure se fosse proprio questa la sua personalità, se questa ricerca inquieta lo caratterizzasse anche al di fuori del lavoro.
Come mi confermano le parole di Eugenio, penso che Decio fosse proprio così.
Vorrei imparare da lui a non accontentarmi mai.
Maddalena Merlo
grazie a tutti per i vostri commenti!
Grazie per il vostro tributo amorevole e delicato ad un uomo intenso, profondo e geniale, come pochi ne rimangono di questi tempi.
In particolare al Politecnico.
[…] https://diegoterna.wordpress.com/2013/03/27/di-stagioni-e-di-giovani-manzi-un-ricordo-di-decio/ […]
Dopo 15 anni dai corsi di Decio, rimane la figura più folgorante che ha attraversato e plasmato senza intenzione, senza “preoccuparsi di ciò di cui si occupava”, il mio percorso universitario e professionale in seguito.
Ciao Decio, e grazie.
solo oggi so di tutto questo … lontana dall’architettura da tempo mi resta sempre nel cuore. Non ho mai smesso di pensare a quell’assistente che compariva il lunedì con le sue fotocopie e le mille dia.
Mi avevano spaventata in tanti quando ho deciso di scegliere il corso del Professor Vogliazzo nel lontano 1999, ultimo laboratorio, prima della tesi mi lanciavo verso l’ignoto, mi dicevano ” o lo ami o lo odi” .. io l’ho amato così tanto che quell’unico corso ha riscattato i 4 insulsi anni precedenti.
Decio e quel corso in generale mi hanno insegnato a pensare in modo diverso, finalmente non dovevo più pensare all’architettura solo come numeri, preesistenze, calcolo, normative, ma potevo pensare alla forma, alla materia soprattutto, al perchè una cosa sta lì, al legame tra un manufatto e ciò che lo circonda non solo in termini di direttrici o di preesistenze storiche
… Mi ricordo quanto lo colpì la mia macchina per le tagliatelle sopra la nostra “Planche” , terreno su cui costruire forme e pensiero. E come mi guardò attonito il falegname a cui chiedi di fresare una parte della tavola perchè fosse “a righe”.
Partivo da casa alle 6 caricavo la mia tavola gialla da 1,5 m sulla mia R4 e riuscivo a parcheggiare proprio davanto all’ingresso del Politecnico. Via veloce a seguire le due ore di scienze delle costruzioni e poi la lezione più bella … alle 11 tutto iniziava. I dubbi sul lavoro fatto, la curiosità sul nuovo progetto, non smettevo un attimo di prendere appunti, ed era un continuo scrivere titoli di libri e nomi e frasi … bevevo quei momenti.
Poi sono partita per la tesi a Barcellona, ma avrei voluto poter proseguire con lui, con loro.
Negli anni ho spesso pensato di presentarmi alle sue lezioni solo per ascoltare, e una volta l’ho anche fatto, mi ha visto, mi ha riconosciuto, mi sono sentita dopo 4 anni di oblio una persona che finalmente aveva un senso, avevo trovato un unico momento in cui capivo quel che stavo facendo smettendo di essere un automa infilato su un binario dove a esami seguono esami.
Finalmente un tempo per pensare.
Grazie Decio, grazie del tuo sorriso e del tuo pensiero libero
Grazie Decio… perché ormai più di 10 anni fa sei stato tu ad accendere questo fuoco che mi brucia dentro e che mi guida in ogni scelta.
Quante volte sono tornata indietro nel tempo per rivivere tutta quell’emozione… Grazie Decio, perché mi hai svegliato dal torpore della mediocrità e dopo di allora non mi è stato più possibile non Vivere la mia esistenza così legata all’amore per l’architettura… non ho più passato un giorno senza un progetto, senza una nuova consegna, senza una nuova esercitazione… Ho sperato che “la fama delle mie imprese” un giorno potesse giungerti alle orecchie per dirti grazie così ed invece, come sempre, ci lasci un compito ancora più difficile, farti vivere attraverso le nostre azioni… ma su quale panchina ci hai lasciato le ultime istruzioni, Professore?
Proprio ieri, prima di sapere, ho pensato a te mentre guardavo un film, DEPARTURES おくりびと, grazie Professore per averci insegnato anche questo, la perfezione dei gesti e tutta la poesia che si può trovare in un sasso. Grazie
Da allora continuo a scavare e a tornare in superficie, la curiosità e l’attenzione ai dettagli, i nostri mille plateaux. Ogni gesto che faccio con la matita, ogni volta che raccolgo un sasso, ogni volta che non smetto di cercare, ogni volta ricordo le tue parole che continueranno a stare con me
ciao decio
sono il tuo amico dario borso
Orribile notizia che apprendo solo ora…
Decio, insieme al solo Arnaboldi, sono gli unici due professori che hanno reso degni 6 anni di Disegno Industriale a dir poco indecenti.
Ancora ricordo quel blocco di un metro cubo di ghiaccio posato sulla cattedra a farci da professore il primo giorno di lezione. Tutti borbottavano “cominciamo bene”.. Qualcuno pensava “chi è sto genio?”. Poi, chi più chi meno, abbiamo tutti capito, e gli insegnamenti di quel grande maestro così magro ancora li sento profondi come pilastri di quasi tutte le scelte professionali, piccole o grandi, che prendo quotidianamente in ufficio, a distanza di quasi 15 anni. Se litigo coi mediocri, ed odio il banale, le convenzioni e la mediocrità, lo devo a lui.
Grazie.
Leggo solo ora tristemente del professor Decio che è stato così importante durante i miei studi al Politecnico. Conservo ancora oggi, dopo anni, le famose fotocopie che preparavano per noi e ci regalava alla fine di ogni lezione. E ricordo con infinita passione le ore a guardare diapositive e ascoltare le sue preziose riflessioni. Un anno a ricoprire con foglie d’oro un’aula del nuovo Politecnico Bovisa e a progettare un party perenne di vodka. Spero che il Politecnico renda onore al suo insegnamento rendendo pubblico un archivio di tutti i suoi materiali visionari e di una intelligenza profonda e puntuale che ancora mi sono utili dopo tutti questi anni passati e che sarebbero utili, mai come in questo presente, agli studenti e a chi ha voglia di sapere e conoscere del suo lavoro. Grazie Decio per il tuo pensiero e la tua passione.
Da ragazzini (15-16) abbiamo suonato insieme in trio chitarra basso batteria. Poi Decio aveva comprato una Fender Stratocaster blu, con la paletta modificata, a punta. Ci piacevano gli Yes, a quel tempo l’architettura non era ancora entrata nella sua vita. Mi spiace tanto. Ciao Decio, ciao a tutti.
Non sapevo che fosse morto. Ho letto per caso questa brutta notizia. Avrei preferivo pensare che scorrazzava ancora per il poli con la sua bicicletta e la valigetta di cuoio marrone. Molte cose che insegnava le ho capite tempo dopo, ma le sue lezioni al cordo di Disegno Indutriale me le ricordo ancora… Almeno certe immagini e parole. Ho sempre creduto di non essere abbastanza intelligente per stargli dietro. Il suo modo di intendere il disegno girava su un piano “atro”, indubbiamente superiore al mio (E non ci voleva molto a quei tempi ha). I comuni mortali a menarsela disegnando l’ennesima azzo di caffettiera mentre il tipo viaggiare a mille con i suoi ragionamenti. Sarebbe stato bello parlarci oggi, con un po’ di esperienza (di vita) sulle spalle. Mi piacerebbe leggere qualcosa di suo.
Solo ora apprendo della triste notizia, purtroppo. Tardi. Mi sarebbe piaciuto incontrarlo di nuovo, a distanza di anni da quando terminai gli studi al Politecnico. Le sue lezioni e le sue parole talvolta mi tornano in mente: significa che in fondo i suoi insegnamenti, anche se nell’inconscio, ci sono sempre e rimarranno. Un caro ricordo.
…se non ricordo male era la primavera del 2000, ero impegnato ad imbastire la mia tesi di laurea. Mi reco in Bovisa per leggere tutte le tesi riguardanti il paesaggio valtellinese. Non erano tante, meno di una decina. Ognuna di queste era contrassegnata da un numero a quattro cifre, o forse cinque. Mi siedo al tavolo e comincio a leggerne una per volta. Ho passato diversi giorni in biblioteca. Un giorno apro l’ennesima tesi e comincio a leggere la prima pagina. Mi rendo subito conto che non ha nulla a che fare con il paesaggio valtellinese! Controllo il numero di codice della tesi…sbagliato! Non era la tesi 3251 ma la 3351 (numeri di fantasia…non li ricordo). La prima pagina era talmente scritta bene che decido di continuare la lettura. Mi sono talmente perso in quei luoghi e spazi d’architettura descitti che non ho staccato gli occhi dal testo fino all’ultima riga. Incuriosito chiudo la copertina per vedere chi aveva scritto questa meraviglia…studente Decio Guardigli. Ma cavolo (ricordo ancora oggi cos’ho pensato)…certo che i genitori hanno avuto proprio un bel coraggio a chiamarlo così! Il giorno dopo mi trovo nei pressi dell’ingresso del Poli…vendono libri usati su una bancarella, ne sfoglio qualcuno. Nel mentre una ragazza con una grossa macchina fotografica sta facendo una macro tra due copertine di libri. Gli chiedo…cosa stai fotografando? INFRA mi risponde lei. Cosa? Infra! Devo fare una tesina per un corso il cui titolo e’ appunto INFRA. Per questo ho fotografato lo spazio che c’e’ tra una copertina e l’altra! Sto giusto andando al corso adesso…e’ molto interessante mi dice la ragazza, perche’ non vieni ad ascoltare anche tu? Attraversiamo la strada per andare nel Poli degli ingegneri, prendiamo posto in un’aula del primo piano…comincia la lezione. Caspita interessantissimo …come hai detto che si chiama il docente? Chiedo io. Guardigli, Decio Guardigli dice lei!
[…] del Poli (i migliori, cui ancora adesso sono legato tanto da collaborare a SAFT) e il collega Decio, architetto di genio (≠ Boeri, per […]
Siamo nel 2024, e ancora penso a quelle giornate fondamentali, etimologicamene, di fondazione di quello che faccio oggi; le lezioni di Decio. Un saluto,